L’uomo non è grembo. All’umanità maschile è negata la maternità. La possibilità di accogliere dentro di sé la vita e di farla crescere è stata affidata alla donna. Le Scritture sante ricorrono alla parola rehem per indicare questo femminile incavo, dove scaturisce il fiotto della vita, dove carne e sangue entrano in perfetta alleanza. L’uomo è piuttosto seme, promessa di vita chiamata a consegnarsi e a uscire da sé. Nella sua natura è iscritta la condanna a un esodo per poter giungere a pienezza. I muscoli espulsori che alla donna servono quando il frutto dell’amore è maturo, all’uomo servono all’inizio, quando la scommessa della vita è affidata al coraggio e al «sogno» (Mt 1,20). Eppure il testo sacro si permette di indicare un grembo anche nello spazio dell’umanità al maschile. Dice il Signore a Davide: «Io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno» (2Sam 7,12). È la parola me‘eh l’azzardo linguistico che documenta questa porzione di anatomia, invisibile a qualunque esame radiografico. Possiamo assumerla come rivelazione di un tratto sublime dell’umanità sognata da Dio, che risplende in forma meravigliosa nella vita di Giuseppe, sposo della Vergine Maria, uomo giusto e santo.
Il Cristo è nato anche dalle viscere di quest’uomo autentico, di cui oggi facciamo memoria. La sua divinità ha preso forma umana, grazie all’ospitalità di questo ventre maschile e paterno, che Giuseppe non ha rinunciato a offrire «davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17). Avrebbe potuto «licenziarla in segreto» (Mt 1,19) quella donna promessa sposa e divenuta madre senza di lui. Sarebbe stato un suo diritto. Avrebbe persino significato rimanere «giusto» (1,19). Giuseppe invece se la tiene così Maria, piena di un altro. Infatti piena di Altro è la vita; questo è il mistero che un padre comprende e custodisce per sempre. L’uomo coglie in anticipo questa eccedenza che la vita possiede, questo incancellabile disavanzo che la realtà registra sempre rispetto ai nostri sogni e ai nostri progetti. La donna se ne accorge più tardi, dopo che la vita è migrata fuori dal suo recinto di crescita. La donna prima riceve, poi restituisce. All’uomo è chiesta invece una caparra iniziale. L’uomo prima deve dare.
Questo misterioso anticipo che il cielo esige da Giuseppe, nel pensiero biblico si chiama fede. Più grande di un sentimento, più tenace di una fugace emozione, la fede è una virtù che si esprime sempre come un profondo atto di libertà, che esce come un seme espulso dal me‘eh, cioè maturato nel cuore e nella notte (cf. 1,24). Giuseppe mostra le qualità della «fede» (Eb 4,16), sa che la vita è un’eredità che si riceve «per grazia», una promessa «sicura» (Rm 4,16) perché è Dio a farla, quel Dio che fa le cose «per sempre» (2Sam 7,16). Per questo accetta di diventare custode di una vita ricevuta, come se fosse sua, come se fosse frutto del suo seme. Assume l’intenzione di quella nascita, rinunciando a considerarla sua opera e sua proprietà. Si raccoglie nel suo ventre paterno, presso quell’energia d’amore capace di espellere lontano da sé il seme della vita. E così diventa «padre» (Eb 4,18): prendendo con sé, accogliendo senza obiezioni o domande. Perché è proprio dal me‘eh che scaturisce la vita non posseduta, cioè la grazia accolta e restituita. È in questo spazio nascosto, ma rivelato, che si fonda la nostra capacità di compiere nella vita coraggiose scelte d’amore.
Pare che manchino padri nella nostra società. Probabilmente è venuta meno quella paternità che nasce dal me‘eh, quella forza interiore che non ha timore di far crescere la vita affidata alle nostre mani, quella virilità umile e silenziosa che sa mettersi a disposizione della vita, fedelmente. Di questo nobile, umanissimo compito Giuseppe è testimone ed esempio. A lui oggi guardiamo. Per mezzo di lui preghiamo il Dio creatore, affinché anche a noi sia dato di poter accogliere responsabilmente tutta la vita consegnata alla nostra « premurosa custodia » (cf. Colletta).