Cecilio Cortinovis da Costa Serina, Venerabile

Venerabile
Cecilio

Cecilio Maria Cortinovis da Costa Serina, 1885-1984

Venerabile

Antonio Pietro Cortinovis, nato a Costa Serina in provincia e diocesi di Bergamo, chiede in gioventù di essere ammesso nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini: veste l’abito religioso il 29 luglio 1908 con il nome di fra Cecilio Maria, e sceglie di essere fratello laico. Nell’aprile 1910 è destinato al convento cappuccino di viale Piave 2 a Milano: per circa 11 anni svolge il compito di sacrestano. Nel 1921 inizia il suo servizio di portinaio e, in seguito, è nominato questuante per i frati e i poveri della città. La sua richiesta rivolta a Dio di dare un riparo dignitoso ai poveri è esaudita nel 1959, con la nascita dell’Opera San Francesco. Nel 1982 è condotto all’infermeria del convento di Bergamo, dove si spegne, a 98 anni, alle 21 del 10 aprile 1984. I suoi resti mortali sono traslati il 31 gennaio 1989 nella chiesa del Sacro Cuore annessa al convento di viale Piave a Milano, nella prima cappella a destra, vicinissima alla portineria. La fase diocesana del suo processo di beatificazione si è svolta a Milano dal 16 settembre 1993 al 10 aprile 1995. Il 6 marzo 2018 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui fra Cecilio è stato dichiarato Venerabile.

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Antonio Pietro Cortinovis nasce a Nespello, frazione di Costa Serina (Bergamo) il 7 novembre 1885, settimo dei nove figli di una famiglia contadina. È soprattutto mamma, con «la silenziosa ma costante adesione di papà», ad educarlo ad una fede vigorosa, che mette radici nella messa dell’alba, scarpinando di buon mattino accanto a lei, per parecchi chilometri lungo i sentieri di montagna.
Se può sembrare un sacrificio troppo grosso o uno sforzo esagerato per un bambino di appena sei anni, questi non ha che da guardare come fa la mamma, che alla Santa Messa non manca mai, neanche con la febbre addosso, perché, dice, «se vado a Messa mi passano tutti i malanni».
«Prima l’anima e poi il corpo», è solita dire in casa, possibilmente ad alta voce perché i figli imparino e, se è necessario, lavora di notte anche per parecchie ore, pur di poter andare il mattino dopo a messa.
Incredibile a dirsi, soprattutto se si considera quel che farà in seguito, quel bambino dà il più grosso dispiacere ad una mamma così devota non volendo mai imparare a fare il chierichetto perché «ad avvicinarmi all’altare mi mettevo a tremare e così me ne rimasi lontano».
Evidentemente il bambino, cui «sembrava che per avvicinarmi all’altare bisognava essere tutt’altro di quello che ero io», deve ancora fare parecchia strada prima di arrivare a concepire che il principale attributo di Dio è la misericordia, che poi egli sarà chiamato ad incarnare ed insegnare con sfumature delicatissime.
Intanto si addestra nel duro lavoro, sui campi scoscesi e per i ripidi viottoli sui quali conduce quattro mucche al pascolo o va a far legna, mentre tra un campanile e un pilone gli nasce in cuore la chiamata ad una totale consacrazione al Signore.
Ci vogliono anni per far maturare quella indistinta voce e quella non ben definita chiamata, insieme all’accompagnamento silenzioso e discreto del parroco che al momento giusto lo indirizza verso i Cappuccini.
Lascia scoccare i 22 anni prima di entrare in convento, dove insieme al sacro abito gli fan prendere il nuovo nome di fra Cecilio Maria. Dopo due permanenze in altrettanti conventi, finisce per approdare a quello di Milano il 29 luglio 1910: vi resterà per più di settant’anni, cioè quasi tutta la vita.
Non sarà mai sacerdote, forse perché fin troppo conscio dei suoi limiti culturali: sceglierà di essere semplice fratello laico, strizzando l’occhio alle missioni in cui gli piacerebbe spendersi, magari a servizio dei lebbrosi, ma in definitiva lasciando che i superiori scelgano per lui, come obbedienza gli impone e come la progressiva ricerca della volontà di Dio lo abitua a fare.
Sono infatti i superiori a concordemente ritenere che la sua miglior missione e il suo più idoneo campo di apostolato sia proprio la Milano di inizio secolo scorso, con le sue sacche di povertà materiale e spirituale, neanche sognandosi di fargli cambiar convento perché ammirati di tutto.

Il bene che l’esile frate è in grado di fare in una città che si sta trasformando in metropoli. Le mansioni che gli sono affidate sono le più svariate, dal sacrista al refettoriere, dall’aiuto portinaio all’infermiere.
Fra Cecilio, che si sta liberando dalla paura che da bambino gli impediva di avvicinarsi all’altare e di fare il chierichetto, scopre che la misericordia di Dio è più grande di ogni peccato e trova la sua delizia nel servire più messe che può, trascorrendo tutto il suo tempo libero davanti al tabernacolo.
E sembra sia proprio qui, dicono quanti hanno studiato il suo itinerario spirituale, che «matura nell’amore», cercando «l’amore di Dio» sopra ogni cosa e ad ogni costo. «Solo in seguito, a misura che cresceva in lui questa carica d’amore, ha imparato a guardare ai fratelli, poveri e non poveri, con gli stessi occhi di Dio (per questo aveva gli occhi sempre più luminosi…) e ad amarli con lo stesso cuore di Dio». Per cui di lui si può
veramente dire che «non i fratelli poveri e sofferenti gli hanno fatto strada all’amore di Dio, ma l’amore e la pienezza del suo Dio lo hanno condotto ai fratelli».
Nel 1914 la meningite lo porta sull’orlo della tomba e ci vuole un vero e proprio miracolo del beato confratello Innocenzo da Berzo per farlo ritornare tra i vivi, ma questo incontro ravvicinato con la morte gli dischiude qualche spiraglio di Aldilà, facendogli ancor più apprezzare la vita come dono da mettere al servizio dei fratelli.
C’è anche un fatto misterioso, una particolare esperienza mistica datata 5 luglio 1922, che viene a segnarlo in modo indelebile, un momento di Tabor che illuminerà negli anni lo scorrere dei suoi giorni, impedendo alla monotonia ed all’ordinaria normalità delle sue mansioni di avere su di essi il sopravvento.
Dopo essersi modellato ai piedi dell’altare, eccolo pronto a seminare l’amore di cui ha fatto abbondante provvista. La sua figura diventa popolare quando comincia a girare per Milano, prima come aiuto e poi come “questuante di città”, secondo la più squisita tradizione cappuccina che raccoglie di casa in casa quanto serve per sfamare i poveri del convento. Basta poco per accorgersi che è molto più quanto si riceve da lui di quanto gli si da: lo si vede dalla serenità che distribuisce e dal conforto che offre.
Di conseguenza, aumenta anche la quantità di aiuti che finisce nella sua bisaccia, perché i milanesi hanno la certezza che sono in buone mani, come dimostra la fila dei poveri in via Piave che si è ingrossata da quando i frati hanno di che soccorrerli: in meno di un anno si passa dai 40 chili al quintale di pane distribuito al giorno, senza contare, come egli stesso annota, «riso, pasta, pesce, carne e anche tutto ciò che si è potuto avere dalla cucina del convento… La minestra che si distribuisce è un quintale al giorno agli uomini e una quarantina di porzioni al giorno alle donne, perché queste preferiscono avere pane da portare ai loro bambini».
È un vero e proprio fiume di miseria quello che ogni giorno si riversa sul convento, destinato ad aumentare vertiginosamente nel periodo bellico, con il razionamento del cibo e la persecuzione razziale, per cui accanto alla carità materiale occorre assicurare anche quella, altrettanto preziosa, dell’accoglienza, sotto mentite spoglie, di ebrei e partigiani, da mettere al sicuro, ma a rischio della vita.
Neanche le bombe riescono a staccare fra Cecilio da Milano, ma non c’è da credere che dai milanesi raccolga solo consensi: sono molte le porte che non gli si aprono, tanti gli insulti che colleziona, innumerevoli gli scherni in risposta al suo tradizionale saluto «Dio sia benedetto».
Tutte cose che lui ha messo in conto e che giorno per giorno ha imparato ad accettare e vivere con amore, convinto, scrive, che «le contrarietà continuate e vissute con l’aiuto divino sono la necessaria crocifissione con Cristo che ci rende partecipi della sua passione e morte», anche perché «andare in Paradiso senza le mani forate non sarebbe neanche dignitoso».
Impara a sue spese, lasciando emergere le sue origini montanare, che «per amare veramente si devono percorrere strette valli, sentieri difficili, dare la scalata ad alti monti, sino a raggiungere la più alta vetta: il Crocifisso».
Nel 1959 fonda l’«Opera San Francesco per i poveri» ricevendo, come inaspettato regalo di un benefattore, un refettorio nuovo di zecca che offre un riparo dignitoso ai suoi poveri, prima costretti a far la fila all’addiaccio.
Per il suo funzionamento ha l’accortezza di far leva sulla forza silenziosa e insostituibile del volontariato, la stessa che anche oggi, dopo quasi 60 anni, permette all’Opera di servire ogni giorno ai poveri di Milano oltre 2500 pasti.
Commentava di aver «conosciuto un numero grandissimo di famiglie e di persone che hanno bussato alla porta del convento, per cercare di sfamare il corpo, ma ho anche veduto che in genere vi è maggior bisogno di Dio».
Tutto invecchia, anche il suo cuore, che comincia a far le bizze perché gli sono stati richiesti troppi sforzi.
Allo scoccare dei 94 anni deve così passare ad altre mani la direzione della sua Opera, continuando tuttavia a sostenerla con la sua preghiera ed i suoi consigli. Gli stessi che regala a quanti lo vanno a cercare per trovar conforto e misericordia, fino al giorno in cui è indispensabile ricoverarlo in infermeria a Bergamo.
Qui lentamente si consuma, fino al tramonto del 10 aprile 1984 in cui incontra “sorella morte”: naturalmente, mentre prega e sorride, anzi con un sorriso tale da impressionare i presenti, ancora oggi convinti che il quasi centenario fra Cecilio Cortinovis abbia avuto la fortuna di “vedere” prima ciò a cui andava incontro.